21 Giu, 2011
Acqua pubblica – dopo i referendum un “nuovo inizio”?
Inserito da: PpF In: Servizi pubblici




Riceviamo e pubblichiamo integralmente:
di Ulderico Vignali
Cosa cambierà con l’abrogazione
delle leggi oggetto dei quesiti referendari sull’acqua?
La vittoria dei “SI” al referendum popolare del 12 e 13 giugno – quesito 1 (scheda rossa), sulla gestione dei servizi idrici e la loro privatizzazione, e quesito 2 (scheda gialla) sulla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato, apre uno scenario completamente nuovo nella gestione dell’acqua. Ora ”il vero dopo-referendum lo devono decidere i Comuni. Loro sono i proprietari delle aziende in quasi tutte le città, quindi saranno le amministrazioni comunali a dover decidere cosa faranno (gare, affidamenti diretti, ecc.)’.
Ieri gli italiani hanno messo un argine alle politiche liberiste che anche sull’acqua avevano preso il sopravvento ormai da 17 anni. Cambierà tutto? Si dovrebbe azzerare un percorso che ha condotto, nel volgere di nemmeno due decenni ad una speculazione senza precedenti sull’acqua, con aumenti notevoli delle bollette e nessun incremento degli investimenti nelle reti idriche.
Era il 1994 quando la legge Galli sanciva che il finanziamento del servizio idrico dovesse avvenire tramite il principio del full recovery cost, ovvero che tutti gli investimenti sulle reti idriche dovessero essere caricati sulle bollette e non rientrassero più nell’ambito della fiscalità generale. Stabiliva inoltre che ci fosse una remunerazione minima del capitale, sempre da mettere in bolletta, del 7 per cento.
Si trattava della prima vera apertura ai privati, che improvvisamente diventavano i soggetti più agevolati nella gestione dell’acqua. Il motivo è facile a dirsi. Non potendo più prendere i soldi dalle casse statali, l’ente gestore doveva anticipare i soldi di tasca propria, come investimento, con la certezza che questi soldi iniziali sarebbero rientrati, con gli interessi, attraverso le bollette. Il problema era che molti comuni non avevano i fondi necessari per fare gli investimenti iniziali; soldi che invece non mancavano ai soggetti privati. Così sempre più enti pubblici dalle casse prosciugate si sono visti costretti a cedere la gestione dei servizi ai privati, o a trasformare le società di gestione in s.p.a. miste pubblico-privato (per la giurisdizione comunque enti di diritto privato).
Ma allora perché, ci si chiede, laddove i privati sono entrati nella gestione dell’acqua gli investimenti non sono aumentati,e in molti casi sono persino diminuiti? Perché il principio del full recovery cost non funziona Lo ha ammesso la stessa Federutility, spiegando nel suo ‘blue book’ che gli acquedotti italiani sono talmente disastrati che si renderebbero necessari investimenti di oltre 55 miliardi di euro. Una tale cifra, anche spalmata sulle bollette in 20 anni, renderebbe inaccessibile l’acqua ad una buona fetta della popolazione. Dunque, la strategia dei privati è stata la stessa che i fautori delle privatizzazioni rimproverano al settore pubblico: nessun investimento Tanto, si sa, che il servizio sia buono o scadente nessuno può rinunciare a consumare acqua.
Nessun investimento a fronte di una gestione privata finalizzata al profitto e non a garantire un servizio alla cittadinanza. In questo non c’è grande differenza fra una società di gestione privata e una s.p.a. mista a maggioranza pubblica. Entrambe devono, per legge, garantire il massimo dei profitti ai loro azionisti e sono enti di diritto privato.
Con ieri si pone fine a questo percorso di privatizzazione, che il decreto Ronchi del 2009 aveva addirittura reso obbligatorio con delle scadenze ben precise che imponevano la cessione di quote sempre maggiori ai privati. Si abroga inoltre la remunerazione minima garantita del capitale investito: quel 7 per cento che veniva regalato ai gestori per invogliarli a compiere degli investimenti.
Si afferma insomma che sull’acqua non si possono fare profitti. Ora, da questo importantissimo paletto che il referendum ha piantato solidamente a terra, bisogna ripartire per affrontare molte questioni legate alla gestione del servizio. Come rendere veramente pubblica e partecipata la gestione dell’acqua? Dove trovare i soldi per gli investimenti?
Hera nei giorni scorsi aveva previsto un aumento della bolletta dell’acqua del 10%; ora ci auguriamo che detto aumento venga sospeso in attesa della definizione del ruolo di Hera nella gestione dell’acqua.
Il secondo referendum ha infatti eliminato quella parte della normativa che prevedeva che nella determinazione della tariffa dell’acqua fosse inserita anche la remunerazione del capitale investito dalle multiutilities (7%). «Ci limiteremo — hanno fatto sapere da Hera — agli interventi di manutenzione ordinaria e aspetteremo di sapere dagli enti locali come intendano finanziare gli investimenti previsti».
Non sarebbe la prima volta, che per “bypassare” un referendum, viene fatto un accordo nazionale. Pensiamo al referendum sulle trattenute sindacali: quorum raggiunto, referendum vinto: gli italiani hanno detto basta alle trattenute sindacali. Eppure le trattenute ci sono ancora.
Succederà anche con l’acqua. Gli interessi economici che “galleggiano” a Ferrara sono troppi.
Con molta cordialità
Ulderico Vignali