



di Paolo Giardini
L’ordine di grandezza della spesa pubblica italiana si aggira sui 150 miliardi di euro all’anno, in aggiunta ad un debito sovrano mostruoso. Nel contesto in cui non si tenta neppure di rimediare al grave dissesto idrogeologico nazionale, si contiene solo formalmente l’inquinamento di aria acqua e suolo, non si aggredisce l’inquinamento sociale di intere regioni in mano a mafia, camorra, ‘ndrangheta, l’enormità della spesa a fronte di risultati irrisori è la prova provata della montagna di risorse dilapidate in cambio di nulla.
Data la ridotta produttività dell’attuale Italia deindustrializzata (frutto dell’assenza di una politica del lavoro), un’eventuale ripresa potrà avvenire solo in tempi lunghi, quindi, per trattenere la corsa verso il precipizio l’unico mezzo rapidamente accessibile è quello dell’immediato drastico risparmio sulla spesa, eliminando ciò che è superfluo, sciupio, manomorta burocratica, strutture clientelari e inefficienti, privilegi di categorie. Altrimenti mancheranno le risorse per l’Istruzione e la Sanità, irrinunciabili punti fermi di ogni paese civile.
Siamo alle strette di un momento cruciale, difficilissimo da gestire, e duro da sopportare per gli inevitabili sacrifici che comporta in aggiunta alle generalizzata perdita di prospettive. Il governo Letta s’è incaricato di affrontare rapidamente compiti immani, ma nella storia patria non ci sono precedenti a conforto della probabilità di successo. Ciononostante, il partito di Letta, indifferente alla brutta china, si palesa in congetture predatrici di risorse come ai tempi delle vacche grasse.
La Finocchiaro, prima firmataria di un disegno di legge riguardante l’accesso ai rimborsi elettorali ai partiti “per arrivare alla piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione” (mirato all’assenza di democrazia interna ai partiti e movimenti padrone-dipendenti), mette insieme una scarpa nuova e una ciabatta vecchia. La scarpa è il “metodo democratico” citato nell’art. 49, la ciabatta consiste nei “rimborsi elettorali”. Tutti, non solo i pignoli, possono constatare che oltre a non stare fra le 20 parole dell’art. 49 quella ciabatta non compare mai nella Costituzione. È noto anche che quella vecchia ciabatta puzza, essendo la dicitura “rimborsi elettorali” sostitutiva di “finanziamento pubblico” nell’ipocrita aggiramento formale del Parlamento con cui 20 anni fa si fecero beffe del referendum abrogativo (aprile 1993) del finanziamento ai partiti. Nonostante il 90,3% di quell’esito referendario non consentisse interpretazioni sulla volontà popolare, quei campioni di etica in Parlamento colsero l’occasione per decidere pure quanto arraffare più di prima. Per 20 anni hanno arraffato, e oggi, nonostante i chiari di luna, pretendono di continuare a farlo, come confermato dalla Finocchiaro col suo rabberciato disegno di legge.
Di certo non mancano i fiancheggiatori dei partiti, volonterosi specialisti in concatenamenti di entimemi da azzeccagarbugli esperti nel quadrare i cerchi, pronti a dimostrare per sillogismi che l’art. 49 implica il mantenere i disgraziati che non sanno fare altro che i politicanti associati nei partiti. Ma si tratta solo di azzeccagarbugli che funzionano solo nell’artefatta calma degli ambienti protetti. Durante le tempeste le loro prestazioni non servono a nulla. Ora, che siamo addentro in una piena e lunga bufera, è sempre più difficile trovare gente disposta a distrarre risorse dall’esiguo mucchio per darle ai partiti (associazioni private, non enti di diritto divino) invece che ai disoccupati, pensionati con la minima, alla sanità, alla scuola. Se in questa congiuntura un partito propone squallidamente di far mancare il pane per garantire la sua pubblicità elettorale di farsesca efficacia, dimostra di essere un’accozzaglia di minchioni, prima ancora che un club di predatori.